Francesca Lanzavecchia: essere designer vuol dire farsi le domande giuste (intervista)

Intervista alla designer, giurato della nostra open call sullo smart working

Francesca Lanzavecchia è una designer dalla vocazione sociale. Ed è per questo che abbiamo pensato a lei come giurato per la nostra open call sullo smart working.

La designer Francesca Lanzavecchia

Che cosa vuol dire per una designer progettare oggi, nel 2020?

Vuol dire porsi molte domande alla ricerca della domanda giusta. Prima di tutto progettare il mestiere che facciamo, lo studio che vogliamo, creare nuovi lead e interazioni con clienti e stakeholders e reinventare continuamente chi vogliamo essere domani. Progettare nel 2020 vuol dire chiedersi anche quanto è necessario il progetto a cui ci accingiamo e, per farlo, ci lasciamo guidare dal processo, dalla Design Research che ci porta alla comprensione del contesto produttivo e di destinazione, sotto tutte le sue sfaccettature, anche le più complesse, interagendo con realtà spesso esterne al mondo del progetto stesso. Vuol dire portare avanti i propri ideali progettuali insieme alle aziende con cui si collabora nel tentativo di innovare a livello di tipologie, tecnologie, materiali e rituali. Fare innovazione nel 2020 non è semplice, ma continuiamo a portare avanti le nostre idee sapendo che, dopo quest’anno, molte cose cambieranno.

Che cosa vuol dire progettare per un mondo “fragile” come quello dei disabili con cui ti sei misurata in passato?

Nonostante io abbia sempre avuto una propensione molto accentuata per l’estetica e il linguaggio non verbale, dare forma alle cose non mi ha mai interessato come processo a se stante. Il mondo dei prodotti è un mondo che racconta la bugia di un’umanità perfetta dai corpi e dai bisogni uniformi, poco rispondente alla vita reale. Mi sono avvicinata al mondo delle disabilità e degli anziani anche perché penso che in questi contesti la bellezza possa fare veramente la differenza, aprendo un discorso nuovo, aiutando con cura e rispetto a rendere accettabili e veri compagni di vita gli oggetti simbolici e identitari della vecchiaia, della malattia, della disabilità.

L’Inclusive Design è una missione che cerchiamo di portare avanti in maniera più o meno esplicita da sempre, sono spesso progetti più complicati ma sono anche le sfide più belle. Recentemente abbiamo collaborato con la fondazione Lien e lo studio di architettura Lekker sul progetto HACK CARE (hackcare.org) e stiamo collaborando con le onlus torinese Dear e il Reparto di Pediatria Oncologica del Regina Margherita di Torino.

Design e funzione sociale: sono due cose che oggi vanno d’accordo? O c’è qualcosa da rivedere nell’approccio dei progettisti, a partire da quelli italiani?

Oggi risulta ancora molto difficile innovare con un’agenda sociale in mente, purtroppo i progetti con questo intento restano nella maggior parte dei casi dei progetti speculativi e non arrivano al mercato. Dal canto mio credo in un design umanistico in cui al centro del progetto c’è sempre l’uomo per cui la funzione sociale di oggetti e interni/spazi/installazioni resta fondamentale.

La collezione “No Country for Old man” dello studio Lanzavecchia + Wai

Mi chiedo spesso: potrei vivere una vita professionale di mero shape giving senza innovare archetipi, rituali, processi? Mi piace pensare che ognuno di noi progettisti voglia spingere una propria agenda personale. C’è chi prima di tutto si concentra sui materiali e sui processi e anche quello è un approccio sempre più necessario per produrre meno, in maniera più green e più sostenibile, cosi come lo è l’approccio di chi progetta pensando al servizio invece che a produrre materialità…

Lo smart working è un tema da mesi diventato centrale: hai avvistato in giro progetti interessanti?

Lavorare in remoto ha sempre fatto parte del DNA del nostro studio (Lanzavecchia + Wai) che è un ponte fra l’Italia e Singapore. Nei giorni di quarantena ho pensato spesso al significato di lavorare da casa trovando soluzioni creative sull’utilizzo degli spazi ma soprattutto sulle abitudini posturali che a casa non si ha vergogna di testare e modificare.

Un progetto per me molto interessante è Grafeiphobia: Unexpected Office (letteralmente paura della scrivania) una collezione di mobili per home office che risponde al crescente numero di persone che lavorano a casa nei loro letti. I tre pezzi della collezione di Goeffrey Pascal si basano ciascuno sulle posizioni che possiamo assumere lavorando a letto: Besc per l’utilizzo del computer sulle nostre ginocchia, Triclinum Gum per lavorare su un fianco e Flyingman per lavorare a pancia in giù. In questi mesi abbiamo messo in questione molti aspetti del vivere la casa e molto interessante da segnalare è la mostra virtuale del MAXXI Maxxicasamondo, curata da Domitilla Dardi e Elena Tinacci, non solo per gli spunti sullo smart working ma per una ricerca ben più ampia sul concetto di casa.

Che ricordi hai, da bambina, degli spazi di lavoro?

Sono figlia di due medici e per me, da bambina, il lavoro avveniva solo in laboratori e ospedali… Le visite erano molto rapide ma nelle rare occasioni in cui sono riuscita a passare più tempo in laboratorio da mio padre, ero tornata casa con un grande senso di magia. L’azoto liquido e il suo fumo, le luci UV, tubi trasparenti in cui scorrono liquidi colorati. Trasformavo le provette in piccoli personaggi disegnandovi faccine con i post-it e creavo le megalopoli in cui vivevano con numerosissimi porta-provette. Uno spazio di lavoro sicuramente magico che purtroppo negli anni successivi ha iniziato a spaventarmi durante le ospedalizzazioni mie e di altri membri della famiglia…

Cosa vuoi dire ai progettisti che candidano i loro progetti per la open call di Hiro?

Sedia “Nena” dello studio Lanzavecchia + Wai

Quella che Hiro dà ai giovani progettisti è una bellissima opportunità di confrontarsi con un briefing di progetto reale, con una giuria di professionisti e una di utenti finali. L’opportunità di lavorare su un tema attualissimo e di grande impatto e con la possibilità di vedere il proprio progetto prodotto e sul mercato.